BEATA GIANNA BERETTA MOLLA Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book Vogliamo raccontare la storia di una madre che papi e vescovi avevano già additato all'esempio dell'intero popolo cristiano prima ancora che fosse beatificata.
Paolo VI, nell'Angelus del 23 settembre 1973, parlò di lei: "una madre della diocesi di Milano che, per dare la vita al suo bambino, ha sacrificato con meditata immolazione la propria". Lo stesso hanno fatto più recentemente Giovanni Paolo II ed il cardinale Martini: La vicenda appartiene ai nostri tempi, non solo perché parliamo di una donna scomparsa non molti anni fa, ancora giovane, ma perché risponde ad una esigenza sempre più avvertita ai nostri giorni. Nel Concilio Ecumenico Vaticano II è stato solennemente proclamato che "il Signore Gesù a tutti ed a ciascuno dei suoi discepoli, di qualsiasi condizione, ha predicato la santità della vita" e che dunque "tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza di vita cristiana ed alla perfezione della carità", e che "nei vari tipi di vita e nei vari compiti un'unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio". Ma ora è necessario che questa convinzione sia testimoniata anche nella scelta di coloro che vengono presentati alla venerazione ed imitazione di tutti i fedeli. Spesso qualcuno chiede: "Perché i santi sono quasi sempre dei religiosi, o comunque persone che hanno concluso la vita con particolari forme di consacrazione a Dio?". Si avverte l'esigenza che vengano proposti come modelli dei santi che abbiano vissuto la vita di tutti, tra lavoro e famiglia, con coniuge e figli, con gioie e preoccupazioni di ogni giorno. Se la domanda nasconde l'idea che si possa diventar santi anche senza un serio e totale dono di sé a Dio, siamo del tutto fuori strada. La domanda è invece corretta se manifesta il desiderio di far entrare quel tutto in cui consiste la santità ("amare Dio con tutto il cuore, tutta l'anima, tutte le forze") dentro i ritmi più quotidiani e comuni dell'esistenza. Il marito di Gianna Beretta, interrogato qualche tempo dopo la morte della moglie, rispose semplicemente: "Io non mi sono mai accorto di vivere con una santa". Ma egli stesso chiariva che questa affermazione si spiegava per la persuasione, così diffusa un tempo, che la santità debba sempre manifestarsi con abbondanza di avvenimenti eccezionali (una sorta di costante immersione nel prodigioso). Poi, ripensando alla vita della moglie, egli comprese "che la santità è la quotidianità della vita, vissuta alla luce di Dio". E tuttavia la Chiesa non rinuncia a chiedere, per proclamare qualcuna santo, che sia provata l'"eroicità delle sue virtù". Solo che, in questi casi di santità laicale, l'eroicità resta a lungo nascosta dentro una fedeltà a tutta prova, fatta di cose semplici e quotidiane, fino a che l'Amore a Dio e al prossimo non trova occasione di esprimersi in tutta la sua forza e la sua abbagliante purezza. Torniamo alla testimonianza del marito: "Gianna era una donna splendida, ma assolutamente normale. Era bella, intelligente, buona. Le piaceva sorridere. Era anche una donna moderna, elegante. Guidava la macchina, amava la montagna e sciava molto bene. Le piacevano i fiori e la musica. Per anni siamo stati abbonati ai concerti del Conservatorio di Milano. Le piacevano i viaggi. Io andavo spesso all'estero per motivi di lavoro e, appena possibile, la portavo con me. Siamo andati in Olanda, in Germania, in Svezia, e un po’ dappertutto in Europa...". E' giusto, tuttavia, proprio perché abbiamo bisogno di quella luce che ad un tratto illumina l'intero quadro, partire dal periodo di maturazione durato sette mesi, durante il quale la "perfetta Carità" invase il cuore di questa sposa e madre. All'inizio dell'estate del 1961 la dottoressa Gianna Beretta e l'ingegnere Pietro Molla erano una coppia felice: lei lavorava in un ambulatorio medico dove esercitava la professione con competenza e dedizione; lui dirigeva la sua fabbrica di tremila operai. La famiglia, nella quale dominava un totale accordo, era allietata da tre bei bambini ancora molto piccoli, tra i cinque ed i due anni. Per i due genitori i figli erano una ricchezza, tanto che desideravano ancora un frutto del loro amore. Lo sappiamo da una lettera di lei: "Io sono sempre felice di Pietro e dei nostri tre magnifici bambini, e ne ringrazio tanto il Signore. Desidererei tanto un altro 'popo'". Nell'agosto si annunciò la nuova desiderata maternità, ma la gioia si mescolò presto alle più gravi preoccupazioni: a fianco dell'utero cresceva un grosso fibroma e si rendeva necessario e urgente l'intervento chirurgico. Gianna comprese subito a cosa andava incontro. La scienza di allora offriva due soluzioni considerate sicure per la vita della madre: una laparotomia totale con asportazione sia del fibroma che dell'utero; o l'asportazione del fibroma con interruzione della gravidanza. Una terza soluzione, che consisteva nell'asportare soltanto il fibroma senza toccare il bambino, metteva in grave pericolo la vita della madre. Leggiamo dalla Relazione clinica del tempo: "Una sutura praticata sull'utero nei primi mesi di gravidanza spesso cede, con secondaria rottura dell'utero e pericolo immediato mortale per la paziente, verso il quarto o il quinto mese di gestazione; rischio ben noto alla dottoressa Gianna". Inoltre comunque fossero andate le cose nei mesi immediatamente successivi, il rischio si sarebbe poi ripresentato gravissimo al momento del parto. La dottoressa Beretta, prima di andare in ospedale, si recò dal sacerdote dal quale abitualmente si confessava, che la esortò a sperare e ad avere coraggio. "Sì, don Luigi - gli rispose la donna - ho tanto pregato in questi giorni. Con fede e speranza mi sono affidata al Signore, anche contro la terribile parola della scienza medica che mi diceva: 'o la vita della madre o la vita della sua creatura'. Confido in Dio, sì, ma ora spetta a me compiere il mio dovere di mamma. Rinnovo al Signore l'offerta della mia vita. Sono pronta a tutto, pur di salvare la mia creatura". Raccontò lei stessa il primo incontro col chirurgo: "Il professore mi disse prima dell'operazione: 'Cosa facciamo, salviamo lei o salviamo il bambino?. 'Prima salviamo il bambino!, gli dissi subito. 'Per me non si preoccupi'. E, dopo l'operazione, egli mi disse :'Abbiamo salvato il bambino'". Il professore, di religione ebraica, rispettò la volontà della paziente, anche se non si sentiva di condividerne la scelta. Solo lui e Gianna sapevano il significato profondo di quell' "Abbiamo salvato il bambino". L'espressione annunciava alla madre altri mesi di passione, tanti quanti sarebbe durata ancora la gravidanza. Quando se la rivedrà davanti, nel momento fatale del parto, il professore esclamerà con un misto di ammirazione e di sconcerto scientifico: "Ecco la madre cattolica!". Una di quelle profezie che Dio sa trarre dalla bocca dei lontani. Il primo intervento riuscì: una scelta eroica era stata fatta, ma ora tutto sembrava rientrare nella normalità. Gianna riprese il suo lavoro in famiglia e nell'ambulatorio e si curò da sola i disagi e le sofferenze di quella pericolosa gravidanza, senza pesare su nessuno, tacendo con tutti, per non turbare la serenità dei figli e del marito. Ma continuando a vivere normalmente, con gioia perfino, senza smettere di sperare. Mancava solo un mese al parto e il marito dovette recarsi a Parigi per lavoro. Gianna gli chiese di portarle alcune riviste di moda. "Se Dio mi tiene qui -disse- mi voglio fare dei bei vestiti" e difatti le riviste ci sono ancora con i segni da lei tracciati acanto ai modelli che le piacevano. Quando diventerà santa, anche quelle riviste saranno reliquie. Non è una banalità, è l'invito ad abituarci a un modo nuovo di giudicare. Ogni tanto era colta dall'angoscia del continuo pericolo, ma la sopportava da sola per risparmiare i suoi cari, nella preghiera e nell'offerta, con piena coscienza. Sul suo tavolo da lavoro troveranno poi dei testi di medicina aperti al capitolo sulle "maternità a rischio". "A me - testimonierà poi il marito - tornava in mente con insistenza la sua richiesta che 'fosse salvata la gravidanza', ma non osavo andare oltre con il pensiero. Non osavo parlarne con mia moglie. Qualche tempo dopo: 'Pietro - mi disse -, ho bisogno che tu, che sei sempre stato tanto amorevole con me, lo sia ancor di più in questo periodo, perché sono mesi un po’ tremendi per me'. Continuavo a vederla tranquilla. Si occupava con il solito affetto dei nostri bambini e dei suoi malati. Poi un giorno mi sono accorto che metteva a posto la casa con una attenzione particolare. Che riordinava i cassetti, gli armadi…come se avesse dovuto partire per un lungo viaggio…" Soltanto al fratello sacerdote Gianna manifestò il suo stato d'animo: "Il più ha ancora da venire. Tu non te ne intendi di queste cose. Quando sarà il momento, o io o lui". Ma non era una sfida, era tenerezza verso il piccolo che cresceva dentro. Torniamo al racconto del marito: "Un mese e mezzo prima della nascita di nostro figlio è successa una cosa che mi ha sconvolto. Dovevo uscire per andare in fabbrica e avevo già infilato il cappotto. Gianna -mi pare ancora di vederla- era appoggiata al mobile dell'anticamera della nostra casa. Mi è venuta vicino. Non mi ha detto: ' Sediamoci', 'fermati un momento', 'parliamo'. Niente. Mi è venuta vicino così come succede quando si debbono dire cose difficili, che pesano, ma alle quali si è tanto meditato, e su cui si vuole 'tornare'. 'Pietro - mi ha detto-, ti prego….Se si dovrà decidere tra me e il bambino, decidete per il bambino, non per me. Te lo chiedo'. Così. Nient'altro. Sono stato incapace di dire qualunque cosa. Conoscevo benissimo mia moglie, la sua generosità, il suo spirito di sacrificio. Sono uscito di casa senza dire una parola". Glielo ripeterà ancora prima del parto. Così anche a una amica: "Vado all'ospedale, ma non sono sicura di tornare. La mia maternità è difficile; dovranno salvare o l'uno o l'altro; io voglio che viva il mio bambino". "Ma hai tre bambini, preoccupati di vivere tu, piuttosto!". "No, no…Voglio che viva il bambino". A un'altra amica incontrata dal parrucchiere disse: "Prega, prega anche tu! Durante questa difficile gravidanza ho tanto studiato e pregato per la mia nuova creatura…Prega affinchè sia pronta a fare la volontà di Dio!". E Dio volle che la sua passione cominciasse proprio il Venerdì Santo del 1962. Raccontò una suora dell'ospedale: "La incontrai mentre saliva i gradini per essere accolta in reparto. Mi disse: 'Suorina, eccomi, sono qui per morire', ma aveva uno sguardo buono e sereno. E aggiunse: 'Basta che vada bene il bambino, per me non fa niente!". Il terribile travaglio durò tutta la notte; alle undici del Sabato Santo nacque, con parto cesareo, una bella e sana bambina, proprio nel momento in cui - secondo la Liturgia in uso prima del Concilio- si scioglievano le campane e si cominciava a festeggiare la Resurrezione. Quando si svegliò dall'anestesia le portarono la piccola. Racconta il marito: "L'ha guardata con uno sguardo lunghissimo in silenzio. Se l'è tenuta accanto con una tenerezza indicibile. L'ha accarezzata leggermente senza dire una parola". Poi la sua passione continuò per un'altra lunga settimana, mentre una peritonite settica la conduceva alla tomba, senza che si riuscisse a far nulla per salvarla. Passò gli ultimi giorni continuando ad offrirsi umilmente, come su un altare, pregando e chiedendo che non le dessero stupefacenti perché voleva restare cosciente, mentre invocava Gesù Crocifisso e la sua stessa mamma, che la portassero in paradiso. Il mercoledì dopo Pasqua si risvegliò dal coma e disse al marito: "Pietro, ora sono guarita. Ero già di là e sapessi cosa ho visto! Un giorno te lo dirò. Ma siccome ero troppo felice, stavo troppo bene, con i nostri meravigliosi bambini, pieni di salute e di grazia, con tutte le benedizioni del cielo, mi hanno rimandato quaggiù per soffrire ancora, perché non è giusto presentarsi al Signore senza tanta sofferenza". Le mancavano ancora tre giorni di passione, secondo la misteriosa misura con cui ognuno deve, nel disegno buono di Dio Padre, completare nella sua carne la Passione di Cristo. Dovremo tornare su questa morte, e su quei sette mesi di Via Crucis durante i quali la vita di Gianna Beretta acquistò quella totale trasparenza all'Eterno, in cui consiste la santità. Ma ora dobbiamo, alla luce di quanto è accaduto, ripercorrere brevemente la sua intera esistenza, non per cercarvi a forza altri episodi eroici, ma per rivedere all'opera come viene tessuta quella stoffa cristiana che rende possibile la santità. Scrive ancora il marito, quasi dialogando con lei: "Non hai fatto cose eccezionali, non penitenze eccezionali, non hai cercato la rinuncia per la rinuncia, non l'eroismo per l'eroismo. Sentivi e attuavi i tuoi doveri di giovane, di sposa, di madre e di medico con piena disponibilità ai disegni ed alla volontà del Signore, con spirito e desiderio di santità, per te e per gli altri". Eccezionali furono certamente i genitori di Gianna: una di quelle coppie di inizio secolo, con numerosi bambini (Gianna era la decima di tredici figli), per le quali la fede era sostanza della giornata, nel lavoro e nell'educazione, nei pensieri e nei sentimenti, nelle gioie e nelle pene della vita. Quando Gianna, sette anni dopo la loro morte, incontrerà il suo fidanzato, ella gliene parlerà così: "I miei santi genitori, tanto retti e sapienti, di quella sapienza che è riflesso del loro animo buono, giusto e timorato di Dio". E quando si sposerà, il celebrante (uno dei fratelli di Gianna) le dirà durante la predica:" Gianna, non ti metto davanti i santi, ma la nostra mamma. Ricordi come era sempre dolce, sorridente, docile, paziente, attiva, sempre unita a Dio, sia nei momenti di gioia come di dolore". Un altro fratello ricorda: "La mamma, pioggia o non pioggia, freddo o caldo, ogni mattina presto, i suoi figli se li conduceva alla Santa Messa e Santa Comunione. Ci svegliava non con un ordine o una imposizione, ma con un dolce invito, passandoci la sua mano sul viso e lasciandoci la libertà poi di alzarci o di continuare nel sonno. Ci aiutava poi lei a dire le parole a Gesù prima della Comunione e dopo; ci raccoglieva tutti intorno a lei nel banco della chiesa, dopo averci lasciati un poco soli con il Signore, subito dopo la Comunione, perché parlassimo noi con Lui e, poi, cominciava lei, facendoci ripetere le sue parole: non erano preghiere lette, ma le improvvisava lei, semplici e bellissime". La santità dipende sempre da una familiarità nei riguardi del Signore Gesù, e la familiarità comincia sempre con un incontro.
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